Tumore alla prostata di basso grado: è veramente un tumore?

Il tumore alla prostata di basso grado è tecnicamente un tumore, ma negli anni ci si è resi conto che questa definizione potrebbe essere un po’ fuorviante.

Un tumore alla prostata viene diagnosticato tramite esame bioptico, durante il quale il medico patologo può valutare anche il grado di avanzamento della malattia utilizzando la scala di Gleason che definisce come tumore alla prostata un punteggio che va da 6 (iniziale trasformazione) a 10 (gravità avanzata).

I tumori che hanno un Gleason Score di 6 sono le forme meno aggressive, con una progressione spesso molta lenta, che generalmente vengono definiti tumori di basso grado o a basso rischio.

Dobbiamo smettere di chiamarlo “tumore”?

Dato che queste forme di tumore alla prostata possono restare completamente indolenti per molti anni se non per l’intera vita del paziente, urologi e oncologi si stanno chiedendo se non sia il caso di iniziare a distinguerli nettamente dai tumori alla prostata che invece richiedono terapie e trattamenti, iniziando dal nome.

Un recente articolo pubblicato sulla rivista Journal of Clinical Oncology ha riportato alla ribalta questo tema. In questo articolo, il professor Scott Eggener dell’Università di Chicago ha sottolineato che i tumori con Gleason 6 siano la forma più debole di tumore alla prostata, aggiungendo che la maggior parte di questi sia letteralmente incapace di causare sintomi o diffondersi ad altre parti del corpo.

Il problema più grosso della definizione di tumore di basso grado sta proprio nel fatto che la parola “tumore” e “cancro” provocano necessariamente un grande stato di ansia e stress, sia nel paziente sia nei suoi familiari. Il rischio che si corre in questi casi è che il paziente stesso richieda insistentemente un trattamento radicale, anche quando ci siano i presupposti per poterlo evitare.

Il paziente si sente successivamente più sicuro per essersi liberato per sempre dalla malattia, entrando però in uno stato di ulteriore ansia e stress dovuti agli effetti collaterali dei trattamenti.

Dai dati disponibili sembrerebbe infatti che pochissimi di quei pazienti a cui è stato diagnosticato un tumore alla prostata con Gleason 6 progrediscono verso una forma più aggressiva di malattia nei successivi 5-10 anni.

La raccomandazione generale sarebbe di cercare di identificare correttamente questi pazienti per proporgli un protocollo di sorveglianza attiva, che include generalmente una serie di test del PSA regolarmente programmati, una risonanza magnetica ogni anno ed eventualmente una biopsia ogni due o tre anni.

La situazione verrebbe di volta in volta ridiscussa sulla base dei nuovi risultati, ma finché la malattia rimane stabile è possibile continuare a monitorarla.

C’è ovviamente chi è contrario a questa idea di cambiare il nome a questa malattia. Non chiamarla più “tumore” potrebbe dare un falso senso di sicurezza al paziente, facendogli sottovalutare la situazione, fino a saltare le visite di controllo.

Il dibattito è quindi aperto ed è argomento di discussione di diverse pubblicazioni e presentazioni ai principali congressi di urologia a livello mondiale.

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