La prostata è un organo che può essere colpito da diverse malattie di natura benigna e maligna. Una corretta diagnosi aumenta l’efficacia di ogni terapia.

Con l’ introduzione della nuova PET con PSMA si moltiplicano le possibilità di diagnosi e cura del tumore alla prostata.

Che cos’è la PET?

La PET è un esame semplice, non invasivo e sicuro in cui al paziente viene iniettato un radiofarmaco.
I radiofarmaci sono composti da una molecola di cui si vuole misurare il comportamento e da una particella radioattiva a cui questa si lega che, attraverso le radiazioni emesse, consente allo strumento di seguirne la distribuzione nell’organismo.

Ogni radiofarmaco utilizza una molecola specifica che segue una particolare via metabolica permettendo lo studio di determinate cellule tumorali.

Che cos’è la PET con PSMA?

Il PSMA (Prostate-Specific Membrane Antigen) è una proteina presente sulla superficie di alcune cellule di tumore alla prostata e può quindi essere utilizzata per distinguere una cellula sana da una tumorale.

Con questa tecnica è possibile individuare non solo le malattie primitive confinate all’organo, ma anche le malattie metastatiche.

Il PSMA viene bersagliato con un radiofarmaco in grado legarlo che una volta legato emette delle radiazioni a livello locale, permettendo quindi di individuare cellule di tumore alla prostata.

Per chi è indicata la PET con PSMA?

La PET-PSMA in teoria può essere utilizzata in tutte le fasi del tumore prostatico essendo la proteina PSMA espressa in quantità aumentate quasi esclusivamente nelle cellule cancerose di origine prostatica.
Occorre comunque fare chiarezza per le diverse fasi della malattia.

Stadiazione

Tumore della prostata diagnosticato tramite biopsia, ma non ancora trattato.  In questa fase della malattia l’utilità della PET-PSMA non è ancora stata dimostrata e il numero di studi scientifici internazionali è ancora limitato. Attualmente, la letteratura considera la Risonanza Magnetica multiparametrica la più efficace metodica di diagnostica per immagini nella stadiazione del tumore alla prostata, soprattutto in caso di forme aggressive. 

Ristadiazione

Pazienti già sottoposti a trattamento chirurgico o radioterapico in cui il PSA è salito sopra una certa soglia. Per valutare se la malattia sia ripartita nella sede originale oppure a distanza (metastasi) è necessario eseguire degli esami diagnostici per immagini che possano aiutare a identificare il numero e la sede delle precise localizzazioni del tumore della prostata in ogni paziente, per potergli suggerire una terapia mirata. Purtroppo, in questo momento, le metodiche convenzionali e cioè l’ecografia, la TC, la Risonanza Magnetica e la scintigrafia ossea hanno dimostrato una bassa accuratezza nell’identificare le localizzazioni della malattia. La PET-Colina si è dimostrata essere un esame più accurato tuttavia con risultati ancora subottimali. Poiché è preferibile iniziare un trattamento quando i valori del PSA sono ancora bassi, è indispensabile avere a disposizione una metodica di diagnostica per immagini che ci permetta di “fotografare” la malattia nelle sue fasi di iniziale ripresa.
La PET-PSMA ha dimostrato una maggiore accuratezza rispetto alla PET-Colina, soprattutto per valori di PSA bassi, rivelandosi così un utile strumento diagnostico in questa fase della malattia.

Monitoraggio di pazienti con tumore resistenti alla terapia ormonale

Nelle fasi più avanzate della malattia molti pazienti che inizialmente traggono beneficio dalla terapia ormonale sviluppano una resistenza a questi farmaci. Non sono ancora presenti dati sufficienti nella letteratura internazionale riguardo all’utilità della PET-PSMA in questo stadio della patologia. Tuttavia alcuni autori suggeriscono che la PET-PSMA può fornire utili informazioni riguardo alla risposta del paziente a determinate terapie farmacologiche e quindi potrebbe aiutare il medico nel decidere se continuare o sospendere il trattamento in corso.

Cosa mi devo aspettare dopo una PET con PSMA?

Il medico nucleare, attraverso il referto, può segnalare la presenza di una o più aree in cui il PSMA si accumula, come per esempio un linfonodo, la porzione di un osso, una parte della prostata (nel caso non sia stata asportata chirurgicamente), ecc., sospette per la presenza di cellule cancerose di origine prostatica. Sulla base del referto integrando altre informazioni cliniche del paziente, il medico specialista può proporre la terapia più indicata che sia diretta contro le aree segnalate alla PET-PSMA (radioterapia, terapia ormonale, chirurgia, ecc.) oppure consigliare ulteriori accertamenti (RM della pelvi, biopsia di un linfonodo, ecc.).

E’ importante sapere che il referto può anche non mettere in evidenza alcuna area di iperaccumulo del PSMA, nonostante sia presente una lesione. In questo caso si parla di falso negativo, ed è da imputare a una limitazione della metodica stessa.

Il PSMA infatti non è espresso da tutte le cellule di tumore alla prostata e in alcuni casi la quantità di questa molecola può non essere sufficientemente alta da essere individuata con le tecnologie attuali.

PET con PSMA per uso teranostico

La Teranostica è l’integrazione di imaging diagnostico e intervento terapeutico (Terapia + diagnostica). Un approccio diagnostico diventa teranostico quando è in grado di localizzare una condizione patologica, caratterizzarla da un punto di vista biologico e molecolare e funzionare come agente terapeutico.

Valutare la presenza e bersagliare il PSMA è una metodica che garantisce una maggiore precisione nello studio del tumore alla prostata. Marcando questa molecola le sedi di malattia metastatica possono essere individuate più precocemente, e trattate localmente con maggiore precisione.

Al momento sono in corso studi di fase 3 con PSMA marcato con il lutezio (177Lu) da impiegare a scopo terapeutico, che con ogni probabilità verrà approvato nel corso dei prossimi anni (fonte).

I risultati dello studio VISION condotto su uomini con tumore alla prostata metastatico resistente a castrazione hanno dimostrato che il trattamento con 177Lu-PSMA-617 in aggiunta alle terapie standard ha portato una riduzione del 38% del rischio di morte e del 60% del rischio di progressione della malattia rilevata radiograficamente o di morte rispetto alla terapia standard da sola.

approfondimenti:

https://www.europeanurology.com/article/S0302-2838(20)30946-5/fulltext

Quando un uomo raggiunge circa i 25 anni, la sua prostata inizia a crescere. Questa crescita naturale è chiamata iperplasia prostatica benigna ed è la causa più comune di ingrossamento della prostata.

L’iperplasia benigna della prostata è una condizione benigna che non porta allo sviluppo di un tumore alla prostata, sebbene i due problemi possano coesistere.

Nonostante circa il 50% degli uomini con IPB non sviluppino mai alcun sintomo, altri ritengono che l’iperplasia benigna della prostata abbia un peso sulla propria quotidianità.

I sintomi classici dell’iperplasia benigna della prostata includono:

  • un flusso di urina esitante, interrotto, debole
  • perdite dopo aver urinato
  • un senso di svuotamento incompleto
  • minzione più frequente, soprattutto di notte.

Di conseguenza, molti uomini necessitano di un trattamento. La buona notizia è che i progressi della medicina portano costantemente a terapie sempre migliori.

I pazienti e i loro medici ora hanno più farmaci tra cui scegliere, quindi se con uno non si vedono benefici, si può facilmente passare ad un altro. Anche gli approcci di tipo chirurgico sono sempre più efficaci e hanno meno effetti collaterali.

Prima di arrivare ad avere problemi che necessitino di un intervento avanzato, è possibile agire in prima persona.

Quando i sintomi non sono ancora particolarmente fastidiosi, un’attesa vigile può essere il modo migliore per procedere. Ciò comporta un monitoraggio regolare per assicurarsi che non si sviluppino complicazioni, senza effettuare alcun trattamento.

Per i sintomi più preoccupanti, la maggior parte dei medici inizia raccomandando una combinazione di cambiamenti dello stile di vita e farmaci. Spesso questo sarà sufficiente per alleviare i sintomi peggiori e prevenire la necessità di un intervento chirurgico.

Quattro semplici passaggi per alleviare alcuni dei sintomi dell’iperplasia benigna

  • Alcuni uomini nervosi e tesi urinano più frequentemente. Riduci lo stress esercitandoti regolarmente e praticando tecniche di rilassamento come la meditazione.
  • Quando vai in bagno, prenditi il ​​tempo per svuotare completamente la vescica. Ciò ridurrà la necessità di viaggi successivi in ​​bagno.
  • Parla con il tuo medico di tutti i farmaci da prescrizione e da banco che stai assumendo; alcuni possono contribuire al problema. Il medico potrebbe essere in grado di regolare i dosaggi o modificare il programma per l’assunzione di questi farmaci, oppure potrebbe prescrivere diversi farmaci che causano meno problemi urinari.
  • Evitare di bere liquidi la sera, in particolare bevande contenenti caffeina e alcolici. Entrambi possono influenzare il tono muscolare della vescica e stimolare i reni a produrre urina, portando alla minzione notturna.

Approfondimenti: https://www.mayoclinic.org/diseases-conditions/benign-prostatic-hyperplasia/symptoms-causes/syc-20370087

La fatigue è uno dei sintomi più comuni che i pazienti con tumore alla prostata si trova ad affrontare.

È una forma di stanchezza persistente che rende difficile svolgere anche semplici attività della vita quotidiana come vestirsi, fare la doccia, fare la spesa, uscire con gli amici o avere una vita sociale.

Sembra che il 75% degli uomini con tumore alla prostata avrà a che fare con questo tipo di stanchezza ad un certo punto della malattia o del suo trattamento. 

La fatigue correlata al tumore alla prostata ha un impatto fisico sul paziente che la sperimenta, ma può avere anche dei riflessi importanti sul piano mentale ed emotivo.

Tristezza, ansia e depressione, senso di maggiore dipendenza dagli altri potrebbe rivelarsi frustrante, così come le difficoltà lavorative o sessuali.

La fatigue può essere, quindi, un sintomo importante da non sottovalutare ed è talvolta uno degli aspetti più difficili da gestire, soprattutto se si è abituati ad uno stile di vita attivo. 

Dato il suo impatto sul lato emotivo, la fatigue può influire sulla propria capacità di comunicazione con il proprio medico, nel comprendere nuove informazioni sulla propria malattia o perfino nel prendere decisioni riguardo al proprio trattamento.

Durante il percorso diagnostico-terapeutico è importante concedersi il giusto tempo per assicurarsi di avere compreso e metabolizzato tutte le informazioni necessarie prima di prendere qualsiasi decisione importante, come la scelta di un trattamento, ma è altrettanto fondamentale avere le energie e la lucidità per farlo.

Da cosa dipende la fatigue nel tumore alla prostata?

Le cause per le quali gli uomini con tumore alla prostata possono provare questa sensazione di affaticamento non sono chiare. 

È probabile che a determinare la fatigue concorrano diversi motivi, tra cui la presenza del tumore stesso che comporta dei cambiamenti al corpo come un maggiore consumo di energia.

Lo stato di preoccupazione ansia costante in seguito ad una diagnosi di cancro o alle cure, è di per sé causa di stress, che provoca di conseguenza un maggiore affaticamento.

Anche le terapie per il cancro alla prostata hanno un peso: alcune possono, infatti, causare

affaticamento. 

Come affrontare la fatigue?

Dato che non è facile determinare le cause della fatigue, è altrettanto difficile determinare un trattamento valido per ogni situazione.

E’ possibile comunque agire direttamente con dei piccoli accorgimenti nella propria quotidianità.

Il riposo può essere d’aiuto, ma senza esagerare: stare troppo fermi può avere l’effetto contrario.

Fare attività fisica, anche moderata come una semplice camminata, contribuisce sostanzialmente ad aumentare i propri livelli di energia.

Anche l’alimentazione ha un ruolo importante: bere liquidi a sufficienza, evitare bevande gasate e bibite zuccherate e moderare il consumo di alcol.

Quando i sintomi della fatigue hanno un impatto significativo sul proprio stato di benessere, è importante parlarne con il proprio oncologo o con il proprio medico di base.

referenze:

https://www.mdpi.com/2072-6643/9/9/1003

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/pros.23502

https://www.cancer.gov/about-cancer/treatment/side-effects/fatigue/fatigue-pdq

https://www.mayoclinic.org/diseases-conditions/cancer/in-depth/cancer-fatigue/art-20047709

A maggio del 2020 uno studio italiano aveva osservato che gli uomini con tumore alla prostata che stavano assumendo una terapia di deprivazione androgenica (ADT) avevano 4 volte meno probabilità di essere infettati da SARS-CoV-2 rispetto ai pazienti che seguivano altre terapie e avevano 5 volte meno probabilità di morire per COVID-19.

Altri studi hanno evidenziato che per entrare dentro le cellule polmonari il coronavirus possa utilizzare una proteina chiamata TMPRSS2, che svolge un ruolo in più della metà di tutti i tumori alla prostata dipendenti dagli ormoni androgeni.

Dallo studio italiano sembrava che la riduzione del livello di testosterone di un uomo con ADT riducesse la quantità di TMPRSS2 sulla prostata, ma anche sulle cellule polmonari, riducendo il rischio di infezione da coronavirus.

Ora, un nuovo studio condotto presso la Cleveland Clinic riporta che tra gli uomini con tumore alla prostata, essere in terapia con ADT non ha ridotto il rischio di infezione da SARS-CoV-2. In questo studio i ricercatori hanno studiato quasi 1.800 uomini con tumore alla prostata, 300 dei quali erano in ADT. I tassi di positività al test del coronavirus erano essenzialmente gli stessi tra gli uomini in ADT (5,6%) rispetto agli uomini non in ADT (5,8%). I ricercatori hanno tenuto conto delle differenze tra i gruppi in termini di età, abitudine al fumo e altri fattori e hanno concluso che l’ADT non sembra protettivo contro l’infezione da SARS-CoV-2.

DUE STUDI, DUE DIVERSI RISULTATI. COSA VUOLE DIRE?

E’ ancora presto per avere una risposta chiara e univoca. Gli studi sono ancora pochi e condotti su popolazioni differenti. I medici non possono formulare delle raccomandazioni sulla salute in base a queste evidenze.

I due studi rappresentano però degli importanti pezzi di un enorme e complesso puzzle, che si aggiungono gradualmente al corpo delle conoscenze.

La ricerca continua nei laboratori e negli studi clinici, compresi i test di ADT e altri farmaci che agiscono su TMPRSS2 per cercare di prevenire forme gravi di COVID-19.

Per ora, sappiamo che gli effetti del COVID-19 potrebbero essere più gravi per alcune persone con tumore alla prostata, pazienti uomini sottoposti a chemioterapia o che hanno ricevuto una chemioterapia negli ultimi tre mesi e pazienti che hanno ricevuto farmaci per studi clinici che regolano il sistema immunitario.

Sempre più evidenze dimostrano quanto sia importante una buona alimentazione dopo una diagnosi di tumore alla prostata.

Recentemente i ricercatori del MD Anderson Cancer Center dell’Università del Texas hanno scoperto che gli uomini con un tumore alla prostata localizzato che hanno seguito uno stile alimentare più vicino ai principi della dieta mediterranea hanno una prognosi migliore rispetto ad altri pazienti.

In questo studio, pubblicato sulla rivista Cancer, i ricercatori hanno osservato che una più stretta aderenza ai principi del dieta mediterranea fosse associata a una migliore sopravvivenza libera da progressione della malattia.

La dieta mediterranea è nota per essere collegata a un minor rischio di malattie cardiovascolari e mortalità, ed anche di malattie oncologiche. Questo studio sugli uomini con tumore alla prostata evidenzia quanto sia importante fornire raccomandazioni dietetiche per migliorare l’andamento della malattia.

Lo studio ha osservato 410 uomini inseriti in un protocollo di sorveglianza attiva con tumore alla prostata localizzato di grado 1 o 2 (GG1 e GG2). Tutti i partecipanti allo studio sono stati sottoposti a una biopsia di conferma all’inizio dello studio e sono stati valutati ogni sei mesi attraverso esami clinici e studi di laboratorio misurando il valore di PSA sierico e di testosterone.

I partecipanti hanno completato un questionario sulla frequenza alimentare di base di 170 item e il punteggio della dieta mediterranea è stato calcolato per ciascun partecipante in nove gruppi di alimenti regolati dal punto di vista energetico. I partecipanti sono stati poi divisi in tre gruppi di aderenza alla dieta alta, media e bassa.

Lo studio, il cui maggior numero di partecipanti era bianco, ha anche scoperto che l’effetto della dieta mediterranea era più pronunciato nei partecipanti afroamericani, che hanno normalmente un rischio maggiore di morte per tumore alla prostata e progressione della malattia.

I ricercatori hanno visto un’associazione significativa tra un punteggio dietetico di base elevato e un rischio inferiore di progressione del grado di tumore. I risultati sono preliminari, ma incoraggianti e sono necessarie ulteriori ricerche per valutare se gli effetti benefici della dieta mediterranea possano verificarsi anche in pazienti con tumore alla prostata di alto grado.

Seguire costantemente una dieta ricca di cibi vegetali, in particolare i pomodori, pesce e un sano equilibrio di grassi monoinsaturi può quindi essere utile per gli uomini con diagnosi di tumore alla prostata in stadio iniziale.

Se i risultati dovessero essere riconfermati potrebbero in qualche modo incoraggiare i pazienti ad adottare uno stile di vita sano.

La dieta mediterranea si presenta quindi anche come un potenziale approccio non invasivo per controllare la progressione del tumore alla prostata.

Curarsi mangiando. Sarà possibile?


Le cause del tumore alla prostata non sono ancora del tutto chiare e un gruppo di ricercatori ha provato a cercare risposte nel microbiota.

Ma cosa è il microbiota? 

Il microbiota è l’insieme dei microrganismi che vivono nel nostro corpo, nell’intestino, nella bocca, sulla pelle in mezzo ai capelli, ecc.

Ed include anche la popolazione di batteri meno studiata che vive nel liquido prostatico.

Una ricerca, recentemente pubblicata su Prostate Cancer and Prostatic Diseaseha cercato di fare il punto sui meccanismi diretti e indiretti che supportano il ruolo del microbiota nel rischio di sviluppare un tumore alla prostata ma anche nel determinarne la progressione e la risposta terapeutica.

Cosa è emerso da questo studio?

Interazioni dirette fra microbiota e tumore alla prostata

Le infezioni alla prostata (prostatite) causate da determinati patogeni causa l’insorgenza di infiammazione cronica, condizione comune nell’età adulta e positivamente correlata a un aumentato rischio di tumore.

Recenti evidenze hanno dimostrato come il microbiota del tratto urinario sia implicato nell’infiammazione della prostata e nell’eventuale insorgenza tumorale soprattutto a causa della sua prossimità anatomica e delle potenzialità del tratto urinario di fungere come veicolo di trasporto per la contaminazione da parte di microrganismi esterni.

Il microbiota urinario ha inoltre dimostrato di avere caratteristiche peculiari che lo distinguono da quello cutaneo delle zone genitali adiacenti e di essere sostanzialmente differente tra maschi e femmine.

Nel dettaglio, il microbiota urinario maschile è risultato formato prevalentemente da Corynebacterium, Staphylococcus, Streptococcus, Anaerococcous, Finegoldia, Lactobacillus, Peptoniphilus, Enterobacteriaceae, Pseudomonas, Actinobaculum, Gammaproteobacter, Actinomyces Gardnerella. Interessante notare come in parte vada a modificarsi con l’età. I generi Anaerophaga e Azospira sono infatti risultati presenti in uomini over 70.

La localizzazione spaziale del microbiota urinario è tuttavia oggi ancora carente di informazioni. Ulteriori approfondimenti saranno perciò necessari per verificare questa ipotesi.  

Interazioni indirette tra microbiota e tumore alla prostata

Sempre più studi dimostrano come il microbiota gastrointestinale sia in grado di influenzare i fattori immunitari nel microambiente tumorale e la risposta a chemioterapia o immunoterapia.

L’alterazione della componente batterica (disbiosi) di una specifica regione anatomica non si limita a portare conseguenze in situ. Ad esempio, lo sbilanciamento a favore della produzione di molecole pro-infiammatorie dovuto a disbiosi intestinale può comportare la diffusione di questi molecole con insorgenza di infiammazione sistemica colpendo vari organi, prostata inclusa.

È stato inoltre visto, come il microbiota gastrointestinale di soggetti con tumore alla prostata sia notevolmente differente da quello di uomini sani.

Anche il microbiota orale, se alterato ad esempio in presenza di periodontiti, può rappresentare una possibile fonte di infiammazione sistemica.

Il microbiota e i livelli ormonali sistemici

Determinati batteri in sede gastrointestinale sono in grado di metabolizzare i precursori degli ormoni estrogeni e/o androgeni oltre che catabolizzare i prodotti ormonali finali andando perciò a influenzare i loro livelli in circolo.

Considerando come gli estrogeni incrementino il rischio di cancro alla prostata, un aumento di espressione dei ceppi implicati nella loro produzione predispone l’individuo all’insorgenza del tumore.

Gli androgeni invece sono ormoni fondamentali nella crescita e normale sopravvivenza delle cellule prostatiche. In condizioni neoplastiche, si tende a ridurre il livello di questi ormoni in modo da limitare la proliferazione incontrollata delle cellule cancerose e quindi la progressione tumorale. Tuttavia, la capacità da parte di alcune specie del microbiota gastrointestinale di condizionarne i livelli attraverso una produzione più o meno accentuata può compromettere l’efficacia della terapia.

Di contro, anche lo stesso microbiota può risentire di cambiamenti ormonali.

Il microbiota orale e la salute della prostata

Anche il microbiota orale è implicato nella salute della prostata, non solo per la potenzialità di dare infiammazione sistemica, ma anche per la capacità di alcuni patogeni del cavo orale di colonizzare nello specifico la prostata. Nelle secrezioni prostatiche di pazienti con prostatite cronica o iperplasia prostatica benigna e, simultaneamente, periodontite, sono stati riscontrati infatti batteri caratteristici della placca dentale. Inoltre, soggetti con disturbi periodontali e una prostatite da moderata a severa hanno dimostrato livelli di PSA maggiori rispetto a soggetti senza alterazioni della componente batterica orale.

In conclusione, questa revisione, benché comprensiva di pochi studi a causa della loro generale carenza in letteratura, sottolinea delinea quindi un quadro complesso e ancora da approfondire basato su interconnessioni microbiota-prostata a vari livelli e in entrambe le direzioni che necessità perciò di ulteriori studi e dimostrazioni.

Sipuleucel-T (Provenge) è un vaccino contro il tumore alla prostata. A differenza dei vaccini tradizionali, che potenziano il sistema immunitario per aiutare a prevenire le infezioni, questo vaccino insegna al sistema immunitario ad attaccare le cellule tumorali della prostata.

Questo vaccino viene generato in maniera specifica per ogni paziente. Viene fatto un prelievo di sangue da cui vengono isolati alcuni particolari globuli bianchi. In laboratorio, a queste cellule viene fatta “mangiare” una proteina espressa dalle cellule della prostata, chiamata fosfatasi acida prostatica (PAP), e poi vengono re-iniettate nel paziente.

Queste cellule che hanno mangiato la proteina PAP andranno a contattare i linfociti del paziente per insegnarli a cercare quella proteina all’interno del corpo e uccidere le cellule che la producono.

Ad oggi, questo approccio terapeutico innovativo è stato testato su pazienti con tumore alla prostata metastatico ormone-resistente, il tipo di tumore alla prostata più aggressivo e che risponde meno alle terapie convenzionali.

Su questo tipo di pazienti il vaccino ha aumentato la sopravvivenza di 4 mesi, generando come effetti collaterali febbre, brividi, affaticamento, dolore alla schiena e alle articolazioni, nausea e mal di testa.

Purtroppo lo sviluppo di questa terapia si è dimostrato più complesso del previsto per via della grande variabilità individuale: non è detto che due pazienti con il tumore alla prostata abbiano la stessa malattia, da un punto di vista genetico e molecolare.

Il vaccino sipuleucel-T è stato approvato nel 2010 dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense per il tumore alla prostata, ma ancora oggi il problema di questo nuovo tipo di approccio terapeutico è capire come utilizzarlo per avere il miglior impatto clinico.

Ad oggi, questa terapia potrebbe essere utilizzata in combinazione con o dopo il fallimento di altri farmaci, come enzalutamide, o con altri immunomodulatori, inclusi gli inibitori dei checkpoint immunologici (anti-PD-L1, e affini).

Il sipuleucel-T è stato il pioniere dei vaccini anti-tumorali, ma purtroppo la difficoltà di produzione su larga scala dovuto al fatto che si tratta di una terapia “personalizzata” sul singolo paziente lo rende ancora oggi molto costoso.

Ogni infusione di sipuleucel-T costa intorno ai 30.000 dollari ed ogni terapia prevede 3 trattamenti.

Da un punto di vista farmaco-economico il costo della terapia superano i benefici sulla qualità della vita (in termini economici) facendo quindi propendere ancora per farmaci più tradizionali.

Il sistema immunitario ha il potenziale di eliminare i tumori. Lo scopo dei vaccini anticancro è insegnare al sistema immunitario del paziente a riconoscere le cellule tumorali e ucciderle.

Si tratta di terapie molto all’avanguardia, molte ancore in fase sperimentale, ma con grandissime potenzialità.

L’iperplasia benigna della prostata (IPB) è una patologia molto comune negli uomini sopra i 50 anni di età.

Purtroppo non si conoscono ancora le cause, ma è certo che siano implicati dei cambiamenti a livelli ormonale. Con l’avanzare dell’età, infatti, la prostata tende fisiologicamente a modificare la propria consistenza e volume in risposta allo squilibrio tra gli ormoni androgeni ed estrogeni.

Nella prostata, il principale ormone androgeno, il testosterone, viene convertito da parte dell’enzima 5-alfa reduttasi (5AR) in diidrotestosterone (DHT), il principale ormone implicato nello sviluppo e nel mantenimento dell’iperplasia prostatica.

Il trattamento d’elezione per questa patologia, infatti, prevede l’utilizzo di farmaci che hanno la funzione di inibire 5AR, portando ad una diminuzione del volume prostatico e di conseguenza dei sintomi ostruttivi (difficoltà ad iniziare la minzione, flusso debole, interruzione del getto, sgocciolamento a fine minzione) che caratterizzano l’ingrossamento della prostata.

La dutasteride e finasteride sono due principi attivi contenuti nei principali farmaci utilizzati per il trattamento dell’iperplasia benigna, ma come ogni farmaco possiedono anche degli effetti collaterali.

Per il finasteride esiste addirittura una patologia specifica, chiamata appunto Sindrome post-finasteride, rilevata principalmente negli uomini che utilizzano questo farmaco contro la calvizie.

Negli ultimi anni il ricorso a trattamenti più naturali è diventato sempre più popolare. Nel caso dell’iperplasia prostatica benigna la Serenoa Repens è sicuramente la sostanza più conosciuta e utilizzata, che ha visto la messa sul mercato di un gran numero di integratori contenenti estratti di questa pianta.

Studi in vitro hanno dimostrato che la Serenoa repens è un inibitore della 5-alfa-reduttasi (fonte) sostenendo il suo utilizzo per il trattamento dell’iperplasia prostatica benigna.

Inoltre, alcuni studi hanno riportato che la Serenoa repens combinata con altri composti (come il selenio e il carotenoide licopene) agirebbe ​​promuovendo un equilibrio ottimale tra ossidanti/antiossidanti, con significativi effetti benefici sull’iperplasia. Alcuni studi hanno anche riportato che l’assunzione di Serenoa repens per 3 mesi può migliorare i sintomi del basso tratto urinario dei pazienti.

Inoltre la Serenoa repens sembra avere un minore impatto sulla funzione erettile dei pazienti rispetto ai farmaci, come la tamsulosina.

In definitiva, incrociando i risultati di diversi studi clinici randomizzati la Serenoa Repens risulta come un buon elemento per il trattamento dell’iperplasia prostatica benigna.

Tuttavia bisogna sempre tenere in considerazione che la serenoa repens è un composto naturale la cui qualità può variare a seconda dell’ambiente di crescita della pianta o della tecnica di estrazione.

Allo stesso tempo, è necessario ricordare che diversi gruppi etnici possono avere una diversa tolleranza ai farmaci e alle sostanze.

E’ quindi necessario uno studio randomizzato di alta qualità ad hoc per avere un risultato scientificamente più attendibile.

Sappiamo ormai tutti che fumare è una pessima abitudine, per la nostra salute a 360 gradi, ma è bene ricordarsi che, se si ha un tumore alla prostata, quella del fumo è un’abitudine che fa male a diversi livelli.

In seguito ad una diagnosi di tumore della prostata spesso ci si concentra tanto sul combattere la malattia da perdere di vista i fattori di contorno che potrebbero cambiare la vita dei pazienti, compresa la risposta alle terapie alle quali sono stati sottoposti.

Gli studi che hanno valutato l’associazione del fumo di sigaretta con l’incidenza e l’aggressività del tumore alla prostata hanno dato risultati controversi.

Una recente ricerca pubblicata sulla rivista JAMA Oncology ha esaminato e analizzato sistematicamente l’associazione tra l’abitudine al fumo di sigaretta e il verificarsi di recidiva, metastasi e mortalità  tra i pazienti con tumore prostatico localizzato sottoposti a prostatectomia radicale primaria o a radioterapia.

FUMARE DURANTE LE TERAPIE: COSA DICE LA RICERCA

La revisione sistematica e meta-analisi ha incluso 11 studi, osservazionali e non randomizzati, per un totale di 22.549 pazienti, che presentavano carcinoma prostatico, sottoposti a prostatectomia radicale primaria o radioterapia. Complessivamente, ben 4202 pazienti (18,6%) erano fumatori.

Dall’analisi è emerso che sia i fumatori al tempo della terapia, sia gli ex-fumatori avevano un rischio statisticamente più alto di sviluppare una recidiva biochimica rispetto a chi non aveva mai fumato.

Inoltre i fumatori, ma non gli ex-fumatori, erano anche a più alto rischio di metastasi e mortalità dovuta al tumore prostatico.

I dati parlano chiaro: coloro che fumavano nel momento in cui sono stati sottoposti alle terapie per il carcinoma prostatico localizzato avevano un rischio significativamente maggiore di recidiva, metastasi e mortalità specifica per cancro.

Si tratta di risultati importanti che dovrebbero incoraggiare gli oncologi, gli urologi e i radiologi a consigliare ai pazienti di smettere di fumare, dato il rischio di esiti significativamente peggiori associati al fumo.

Oggi il trattamento principale per il tumore alla prostata è rappresentato dalla prostatectomia radicale, ovvero la rimozione chirurgica della prostata. Questo trattamento è in alcuni casi seguito da una radioterapia per eliminare eventuali cellule tumorali residue.

In alternativa, gli uomini possono scegliere di ritardare la radioterapia ed essere monitorati per controllare la ripresa o la ricomparsa della malattia, tramite la misurazione nel sangue del PSA o tecniche diagnostiche per immagini (come la risonanza magnetica).

Secondo i risultati di dello studio RADICALS-RT pubblicata sulla rivista The Lancet non è chiaro se ci sia una vantaggio nell’eseguire una radioterapia subito dopo l’intervento oppure solo alla ricomparsa di una malattia residua.

Dal momento che alcuni uomini non avranno probabilmente bisogno della radioterapia, ciò significa che rinunciando a un trattamento immediato, possono evitare potenziali effetti collaterali come incontinenza e problemi intestinali.

Questa evidenza è il risultato di tre studi randomizzati, che hanno coinvolto più di 2.000 uomini che avevano subito una prostatectomia radicale.

L’analisi ha mostrato che non ci sono state differenze nella comparsa di recidive di tumore alla prostata entro cinque tra i pazienti che hanno ricevuto una radioterapia subito dopo l’intervento chirurgico rispetto ai pazienti che l’hanno ricevuta solo dopo la ricomparsa di alti valori di PSA.

Lo studio RADICALS-RT non ha mostrato alcun beneficio per la radioterapia adiuvante, post-chirurgia, rispetto a una politica di radioterapia di salvataggio per la progressione biochimica del PSA; tuttavia, la radioterapia adiuvante aumenta il rischio di sviluppare problemi minzionali, disfunzioni erettili e problemi intestinali.

In assenza di prove affidabili che la radioterapia adiuvante faccia più bene che male, l’osservazione con il trattamento di salvataggio per la progressione biochimica del PSA dovrebbe essere l’attuale standard di cura dopo la prostatectomia radicale.