Metodi, esami e test che vengono eseguiti per controllare la salute della prostata

Molti uomini pensano che l’iperplasia prostatica benigna sia un primo passaggio vero il tumore tumore alla prostata.

A partire dai 40-50 anni, gli uomini entrano in una fase della vita in cui è importante fare dei controlli periodici della prostata. Sopra questa età iniziano ad essere più frequenti patologie che colpiscono questo organo, che possono essere di natura benigna, come l’ingrossamento, oppure maligna, come un tumore.

Si tratta di due patologie molto diverse, ma con sintomi molto simili e soprattutto con fattori di rischio molto simili.

Le cause dell’iperplasia prostatica

L’iperplasia prostatica benigna, chiamata comunemente (ma erroneamente) ipertrofia, consiste in un aumento del volume della prostata, le cui cause non sono ancora del tutto chiare. Presumibilmente, alla base di questo cambiamento ci sono squilibri ormonali, stati di infiammazione, o infezioni virali o batteriche.

Lo stile di vita sembra avere un ruolo nello sviluppo di questa patologia. Non è certo che l’introduzione eccessiva di proteine, carne rossa, grassi, alcolici siano una causa dell’insorgenza dell’iperplasia, ma sembra esserci una correlazione con la progressione e il peggioramento dei sintomi di una situazione già esistente.

Chi soffre di iperplasia è più a rischio di tumore alla prostata?

L’iperplasia prostatica benigna e il tumore alla prostata sono due patologie in cui avviene una proliferazione delle cellule, anche se di natura diversa.

Tra l’iperplasia e il tumore alla prostata c’è correlazione?

Diversi studi indicano che ci sia una correlazione di tipo statistico. Ovvero nei pazienti con iperplasia c’è un maggiore rischio di sviluppare un tumore alla prostata.

Tuttavia, questa correlazione non è sufficiente per dimostrare che l’iperplasia sia la causa diretta del tumore. Il motivo sembra essere legato al fatto che entrambe le patologie hanno molti fattori di rischio in comune, in primis l’età.

Oltre a questo, anche altri aspetti come gli squilibri ormonali, l’infiammazione, le infezioni, problemi metabolici, possono aumentare il rischio di sviluppare sia l’iperplasia prostatica benigna sia il tumore alla prostata.

Correlazione statistica, ma non causale

Una metanalisi pubblicata nel 2016 dalla rivista Medicine (fonte) ha messo insieme i risultati di 16 studi caso-controllo e di 10 studi di coorte, arrivando alla conclusione che l’insorgenza di un tumore alla prostata o un tumore alla vescica sia più frequente negli uomini con iperplasia prostatica benigna, e questo più evidente della popolazione asiatica.

Nonostante questo maggiore rischio, al momento non esistono evidenze per supporre che l’iperplasia benigna sia la causa del tumore alla prostata, né che sia una fase precedente a queste patologia.

Il tumore alla prostata è una malattia molto eterogenea. Può avere un crescita molto rapida con un alta capacità di metastasi, così come può può essere considerata una “non malattia” in quei casi in cui non svilupperà mai dei sintomi.

Una corretta caratterizzazione della malattia nel momento della diagnosi può permettere di identificare il miglior approccio terapeutico disponibile per il singolo paziente, nell’ottica di una medicina sempre più personalizzata.

Per questo motivo, oltre a definire la presenza di un tumore alla prostata è molto importante definire il livello di avanzamento e di aggressività potenziale, facendo una accurata stadiazione.

L’obiettivo di un sistema di stadiazione e classificazione del tumore alla prostata è quello di raggruppare i pazienti che possono avere un decorso clinico simile. Questo consente al medico e al paziente di poter discutere sulla prognosi e la scelta di un piano terapeutico, valutando i benefici riscontrati su altri pazienti e altri ospedali con una malattia simile.

Grazie allo studio dell’andamento della malattia su un vasto numero di pazienti, del proprio territorio o livello globale, è stato possibile sviluppare delle raccomandazioni per la scelta del o dei trattamenti più indicati ad un determinato paziente.

Le Linee Guida Europee considerano una classificazione che si basa sul raggruppamento di pazienti con un rischio simile di recidiva biochimica (BCR) dopo prostatectomia radicale o radioterapia.

Questa classificazione tiene in considerazione il valore del Gleason (da 6 a 10), il valore del PSA nel sangue e l’esito dell’esplorazione rettale.

In base al valore di Gleason vengono distinti 5 diversi gruppi, chiamati Grade Group (GG) oppure International Society of Urological Pathology group (ISUP):

  • GG1 o ISUP1 = Gleason 6
  • GG2 o ISUP2 = Gleason 7 (3+4)
  • GG3 o ISUP3 = Gleason 7 (4+3)
  • GG4 o ISUP4 = Gleason 8
  • GG5 o ISUP5 = Gleason 9 o 10

In base all’esplorazione rettale (ER) eseguita dall’urologo, l’esito viene classificato in:

  • T1 = prostata normale al tatto (ER negativa)
  • T2a = prostata sospetta al tatto in meno della metà della superficie di un solo lobo
  • T2b = prostata sospetta al tatto in più della metà della superficie di un solo lobo (UNO SOLO!)
  • T2c = prostata sospetta al tatto su entrambi i lobi
  • T3 = prostata sospetta in maniera evidente oltre la capsula

Sulla base del Grade Group (o ISUP), dell’esplorazione rettale e del valore di PSA, subito dopo la biopsia è possibile suddividere i pazienti in base al potenziale rischio che il tumore possa avere una recidiva dopo trattamento radicale o radioterapeutico.

  • Basso rischio: se PSA < 10 ng/mL, GG1, T1 o T2a (tutti i parametri devono essere soddisfatti)
  • Intermedio rischio: se PSA è compreso tra 10 e 20 ng/mL; oppure se GG2 o GG3; oppure se T2b (è sufficiente un solo parametro)
  • Alto rischio: se PSA > 20 ng/mL; oppure se GG4 o GG5; oppure se T2c (è sufficiente un solo parametro)

A questo principio di base si possono aggiungere i risultati di altri esami di imaging, come risonanza magnetica multiparametrica (mpMRI), PET-PSMA, scintigrafia ossea, Tomografia Computerizzata (TC), e il numero di biopsie risultate positive, e la percentuale di tessuto di ogni biopsia interessata.

Se sono presenti segni di metastasi o di malattia extraprostatica, la malattia viene in ogni caso considerata ad Alto Rischio di recidiva.

Un esito di risonanza magnetica molto sospetto (PIRADs 5) può far aumentare il sospetto di un tumore ad alto rischio, anche con GG basso.

Il rischio intermedio raggruppa la maggior pazienti diagnosticati che possono avere delle malattie estremamente diverse tra loro, sia per stadio sia per aggressività potenziale.

Per questa ragione il rischio intermedio, in base alle linee Guida del Cancer Center Network (NCCN), può essere suddiviso ulteriormente in:

  • intermedio favorevole: GG2 o PSA tra 10 e 20 ng/mL, se meno della metà dei frustoli è positivo per tumore
  • intermedio sfavorevole: GG2 (più del 50% di frustoli positivi) o GG3.

Inoltre la presenza contemporanea di almeno due parametri di rischio intermedio (PSA è compreso tra 10 e 20 ng/mL, GG2, T2b) può far propendere per un rischio intermedio sfavorevole.

Le linee guida rappresentano, come dice il nome, delle indicazioni che si basano sulle evidenze scientifiche più solide disponibili al momento della loro elaborazione.

La stratificazione ottimale ha quindi anche una componente personale che deriva dall’esperienza del personale medico che fa la diagnosi.

Le linee sono comunque in continuo aggiornamento, allineandosi costantemente con i più recenti avanzamenti scientifici e tecnologici.

Il tumore della prostata è ad oggi una malattia efficacemente curabile tramite diversi approcci terapeutici, solitamente tramite prostatectomia o radioterapia. La sopravvivenza dopo una terapia è generalmente alta, ma in molti casi non si può escludere il rischio di andare incontro ad una recidiva, ovvero ad una ripresa o ricomparsa della malattia, anche dopo anni dal trattamento.

Cosa è una recidiva

Con il termine di recidiva di un tumore alla prostata si intende la sua ricomparsa in seguito ad un trattamento che era stato eseguito per eradicarlo.

Da un punto di vista clinico, la recidiva e quindi la ricomparsa del tumore alla prostata viene definita quando il PSA nel sangue supera il valore di 0,2 ng/ml, nei pazienti a cui è stata rimossa la prostata, oppure il valore di 2 ng/ml, nei pazienti sottoposti a radioterapia.

Il PSA è il parametro che viene comunemente misurato per valutare sia il rischio di avere un tumore alla prostata (diagnosi) sia per stabilire quale sia il grado di aggressività della malattia (prognosi). Essendo prodotto in maniera esclusiva dalla prostata, in seguito ai diversi trattamenti il valore del PSA scenderà fino ad azzerarsi. Questo avviene solitamente entro un mese dopo l’intervento chirurgico e gradualmente, anche nel giro di anni, in seguito a radioterapia.

Il PSA azzerato, o “indosabile” viene usato per stabilire la buona riuscita del trattamento.

Quando ci si accorge durante le visite di controllo o follow-up che il PSA sta salendo e ha superato la soglia critica si consiglia di ripetere il test almeno due volte presso lo stesso laboratorio per confermare la recidiva.

Questo tipo di recidiva viene definita recidiva biochimica in quanto si basa semplicemente sulla presenza di alti livelli di PSA. La recidiva sistemica, invece, viene definita tramite l’individuazione di cellule tumorali con tecniche di diagnostica per immagini, come la PET-PSMA. Quest’ultima, misurando la presenza di cellule tumorali residue offre quindi la possibilità di una definizione più precisa e realistica di recidiva.

chi è a rischio di recidiva

Purtroppo tra i pazienti con tumore alla prostata sopposti a trattamento una percentuale tra il 15-40% presenterà una recidiva biochimica entro 5 anni (fonte) e un terzo di questi svilupperà metastasi.

I pazienti considerati più a rischio sono quelli a cui è stata evidenziata una malattia extraprostatica alla diagnosi, una positività dei margini all’esame istologico, un Gleason Score maggiore o uguale a 8, un PSA che raddoppia il proprio valore in meno di 10 mesi.

come si tratta una recidiva

Ai pazienti già sottoposti a prostatectomia la recidiva può essere trattata con radioterapia di salvataggio. In questi casi sembra cruciale intervenire appena il PSA supera lo soglia di 0.2 ng/ml, per non aumentare il rischio di una ricaduta dopo il trattamento.

Nel 90% dei casi di recidiva nei pazienti sottoposti a radioterapia questa viene trattata con terapia ormonale, e più raramente con nuova irradiazione o chirurgia.


Il tumore alla prostata di basso grado è tecnicamente un tumore, ma negli anni ci si è resi conto che questa definizione potrebbe essere un po’ fuorviante.

Un tumore alla prostata viene diagnosticato tramite esame bioptico, durante il quale il medico patologo può valutare anche il grado di avanzamento della malattia utilizzando la scala di Gleason che definisce come tumore alla prostata un punteggio che va da 6 (iniziale trasformazione) a 10 (gravità avanzata).

I tumori che hanno un Gleason Score di 6 sono le forme meno aggressive, con una progressione spesso molta lenta, che generalmente vengono definiti tumori di basso grado o a basso rischio.

Dobbiamo smettere di chiamarlo “tumore”?

Dato che queste forme di tumore alla prostata possono restare completamente indolenti per molti anni se non per l’intera vita del paziente, urologi e oncologi si stanno chiedendo se non sia il caso di iniziare a distinguerli nettamente dai tumori alla prostata che invece richiedono terapie e trattamenti, iniziando dal nome.

Un recente articolo pubblicato sulla rivista Journal of Clinical Oncology ha riportato alla ribalta questo tema. In questo articolo, il professor Scott Eggener dell’Università di Chicago ha sottolineato che i tumori con Gleason 6 siano la forma più debole di tumore alla prostata, aggiungendo che la maggior parte di questi sia letteralmente incapace di causare sintomi o diffondersi ad altre parti del corpo.

Il problema più grosso della definizione di tumore di basso grado sta proprio nel fatto che la parola “tumore” e “cancro” provocano necessariamente un grande stato di ansia e stress, sia nel paziente sia nei suoi familiari. Il rischio che si corre in questi casi è che il paziente stesso richieda insistentemente un trattamento radicale, anche quando ci siano i presupposti per poterlo evitare.

Il paziente si sente successivamente più sicuro per essersi liberato per sempre dalla malattia, entrando però in uno stato di ulteriore ansia e stress dovuti agli effetti collaterali dei trattamenti.

Dai dati disponibili sembrerebbe infatti che pochissimi di quei pazienti a cui è stato diagnosticato un tumore alla prostata con Gleason 6 progrediscono verso una forma più aggressiva di malattia nei successivi 5-10 anni.

La raccomandazione generale sarebbe di cercare di identificare correttamente questi pazienti per proporgli un protocollo di sorveglianza attiva, che include generalmente una serie di test del PSA regolarmente programmati, una risonanza magnetica ogni anno ed eventualmente una biopsia ogni due o tre anni.

La situazione verrebbe di volta in volta ridiscussa sulla base dei nuovi risultati, ma finché la malattia rimane stabile è possibile continuare a monitorarla.

C’è ovviamente chi è contrario a questa idea di cambiare il nome a questa malattia. Non chiamarla più “tumore” potrebbe dare un falso senso di sicurezza al paziente, facendogli sottovalutare la situazione, fino a saltare le visite di controllo.

Il dibattito è quindi aperto ed è argomento di discussione di diverse pubblicazioni e presentazioni ai principali congressi di urologia a livello mondiale.

Il tumore alla prostata è la malattia oncologica più diffusa nel sesso maschile e colpisce un uomo su sette. E’ così comune che difficilmente tra i nostri parenti o conoscenti non ce ne sia almeno uno che stia affrontando questa malattia.

Ma molto spesso non lo sappiamo. Il tumore alla prostata è ancora molto spesso un tabù. Un problema che può andare ad interessare la sfera sessuale ed è per questo che non se ne parla.

Ammettere di avere un problema alla prostata viene visto come ammettere di aver perso parte della propria virilità.

In realtà, se gli uomini sapessero che è proprio il trascurare questi problemi a dare problemi di erezione e fertilità correrebbero dall’urologo ben prima di avere dei sintomi.

La parola d’ordine è quindi: prevenzione!

Ed è proprio questo su cui si basa la Fondazione Movember, che ogni anno nel mese di novembre promuove una campagna internazionale di sensibilizzazione sulla salute dell’uomo. 

Il nome Movember deriva da “Moustache”, baffi in francese, e “November“, il mese in cui viene lanciata la campagna. Durante questo periodo gli uomini che aderiscono (i Mo bro) si fanno crescere i baffi invitando altre persone a donare fondi per la ricerca, prevenzione e diffusione della consapevolezza sul tumore alla prostata, tumore al testicolo e sulla salute mentale legata a queste patologie.

La storia di Movember inizia nel 2003, quando due amici, Travis Garone e Luke Slattery, mentre bevono una birra al pub parlano delle mode che erano sparite. Una di queste erano i baffi.

A quel punto i due amici hanno deciso di convincere i loro amici a farsi crescere i baffi e per motivarli hanno preso ispirazione dalla madre di un’amica che stava raccogliendo fondi per il cancro al seno.

Hanno deciso di organizzare una campagna sulla salute degli uomini e sul tumore alla prostata fissando alcune regole che che sono ancora in vigore oggi. Una di queste è che avrebbero donato 10 dollari per ogni uomo che si sarebbe fatto crescere i baffi.

Nel 2003 i primi 30 ragazzi, chiamati Mo Bros, hanno accettato la sfida, fino a coinvolgere oltre 6 milioni di Mo Bros e Mo Sister in tutto il mondo.

Il successo di Movember può essere in gran parte attribuito alla forza della comunità globale. Indipendentemente dalla città in cui viviamo, siamo parte di qualcosa di più grande, uniti dall’impegno per aiutare a cambiare il volto della salute degli uomini.

Puoi contribuire direttamente anche tu a questa iniziativa iscrivendoti a questo link, facendoti crescere i baffi e diffondendo l’importanza della prevenzione.

La Commissione Europea presenta una nuova proposta per sostenere gli Stati membri nell’aumentare l’adozione di programmi di screening per i tumori.

L’obiettivo è quello di riuscire ad aumentare i tipi di tumori che si possono individuare in una fase precoce, migliorando le procedure già esistenti e aumentando il numero di campagne di screening organizzati.

Questo nuovo approccio dell’Europa, basato sugli ultimi sviluppi e evidenze scientifiche disponibili, sosterrà gli Stati membri garantendo che entro il 2025 il 90% della popolazione dell’UE che rientri nelle categorie da sottoporre a screening per il tumore al seno, alla cervice uterina e al colon-retto riceva effettivamente questi esami.

Le nuove raccomandazioni ampliano la popolazione da sottoporre a screening organizzato anche per il tumore della prostata, del polmone, in determinate circostanze, dello stomaco.

Negli ultimi due anni, il COVID ha messo a dura prova la prevenzione, gli screening e la diagnosi dei tumori, accentuando la necessità di potenziare, semplificare e decentralizzare lo screening del cancro in tutta l’Europa.

Le nuove raccomandazioni per gli screening oncologici puntano a sostituire quelle attuali che ormai hanno già compiuto da tempo la “maggiore età”.

L’Europa mette sul piatto 38,5 milioni di euro impegnati nell’ambito del programma EU4Health e altri 60 milioni di euro nell’ambito di Horizon Europe.

Gli aggiornamenti principali

Per quanto riguarda i tumori per cui esiste già uno screening organizzato:

  • Tumore al seno: suggerisce di estendere il gruppo target per includere le donne di età compresa tra 45 e 74 anni (rispetto all’attuale fascia di età compresa tra 50 e 69 anni);
  • Tumore della cervice: raccomanda che le donne di età compresa tra 30 e 65 anni, ogni 5 anni o più, siano sottoposte a test per il papillomavirus umano (HPV) ogni 5 anni, tenendo conto dello stato di vaccinazione contro l’HPV;
  • Tumore colon-retto: chiede che venga eseguito come esame preliminare un test del sangue occulto nelle feci nelle persone di età compresa tra 50 e 74 anni per determinare la necessità di endoscopia/colonoscopia.


Basandosi sulle evidenze scientifiche e sui metodi più recenti, si raccomanda di estendere lo screening organizzato a tre ulteriori tumori:

  • Tumore alla prostata: gli uomini fino a 70 anni dovrebbero eseguire un test dell’antigene prostatico specifico (PSA) e una risonanza magnetica multiparametrica (MRI) come follow-up.
  • Tumore del polmone: per gli attuali fumatori ed ex fumatori di età compresa tra 50 e 75 anni.
  • Tumore dello stomaco: screening per Helicobacter pylori e sorveglianza delle lesioni precancerose dello stomaco in luoghi con un’elevata incidenza di cancro gastrico e tassi di mortalità.

Le raccomandazioni prestano particolare attenzione alla parità di accesso allo screening, alle esigenze di particolari gruppi socioeconomici, alle persone con disabilità e alle persone che vivono in aree rurali o remote per rendere lo screening del cancro una realtà in tutta l’Europa.

Sarà anche importante garantire procedure diagnostiche, trattamenti, supporto psicologico e assistenza post-vendita adeguati e tempestivi. La raccomandazione introduce inoltre un monitoraggio sistematico regolare dei programmi di screening, comprese le disparità, attraverso il sistema europeo di informazione sul cancro e il registro delle disuguaglianze nel cancro.

fonte: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_22_5562

Parlare di “screening” per il tumore alla prostata” non è completamente corretto in quanto non esiste ad oggi un vero e proprio percorso organizzato di visite ed esami per riuscire ad individuare precocemente l’insorgenza della malattia.

Il test di laboratorio che viene considerato il pilastro della prevenzione del tumore alla prostata, ovvero il test del PSA, è stato messo in forte discussione negli ultimi anno, dividendo medici e specialisti tra chi lo considera ancora indispensabile e chi è convinto che porti più danni che benefici, tra cui una grande confusione negli uomini.

La domanda che, infatti, divide da anni gli esperti di salute maschile è: tutti gli uomini, anche senza sintomi o storia familiare di tumore alla prostata, dovrebbero sottoporsi ad un test del PSA?

Chi sostiene l’importanza dei test del PSA di routine lo ritiene il miglior strumento a disposizione dei medici per individuare un tumore alla prostata precocemente, quando è più curabile.

Dall’altro lato, invece, ci soni medici che lo ritengono un esame che spinge molti uomini con una diagnosi di tumore non aggressivo a scegliere trattamenti radicali che possono causare impotenza e incontinenza, nonostante sia ampiamente dimostrato che circa l’80% dei tumori a basso rischio non saranno mai pericolosi per la vita. In questi casi la sorveglianza attiva potrebbe rappresentare una valida alternativa all’intervento.

Il National Comprehensive Cancer Network (NCCN), un’organizzazione senza scopo di lucro composta da 32 centri oncologici negli Stati Uniti, dopo un’attenta revisione della letteratura medica, ad oggi raccomanda che la maggior parte degli uomini con tumore alla prostata a basso rischio sia gestita attraverso la sorveglianza attiva come prima opzione di trattamento, preferendola alla chirurgia e alla radioterapia.

Le linee guida aggiornate da NCCN hanno anche ribadito la posizione contro i test di routine del PSA sulla popolazione generale a causa dei suoi limiti ben documentati.

Alcuni oncologi affermano addirittura che il dibattito sul PSA abbia messo in ombra il vero problema: ogni caso richiede un approccio personalizzato e incentrato sul singolo paziente.

Gli uomini dovrebbero prima di tutto aiutare i propri medici a capire se e quando sottoporsi al test del PSA, in base alla loro composizione genetica e biologica, all’età, alla storia familiare, alla salute generale, allo stile di vita, all’origine etnica e ad altri fattori. Qualsiasi percorso di cura del cancro dovrebbe essere affrontato in un modo simile, incentrato sul paziente.

Test PSA: pro e contro

Il test del PSA è stato introdotto nel 1994 per rilevare la possibile presenza di tumore alla prostata. Un livello di PSA inferiore a 4 nanogrammi per millilitro di sangue veniva storicamente considerato normale; quando raggiungeva un valore di 6 i medici avrebbero suggerito una biopsia per verificare la presenza di un tumore.

Non c’è dubbio che il test del PSA abbia aiutato a identificare molti casi di cancro che altrimenti non sarebbero stati trovati nelle fasi iniziali, ma anche quando il test rivela un tumore, non indica se si tratta di una forma aggressiva che necessita un trattamento immediato o se è un tumore a crescita lenta e a basso rischio poco pericoloso per la vita del paziente.

In effetti, studi autoptici hanno evidenziato che oltre il 30% degli uomini sopra i 70 anni non sa di avere un tumore alla prostata e muore per un’altra causa.

Tutti questi dubbi sul test del PSA hanno portato a un ampio dibattito su chi dovrebbe farlo, a quale età e in che modo medici e pazienti dovrebbero comportarsi in presenza di un livello elevato.

Ed è per questo che, ad oggi, manca ancora un percorso di screening organizzato per il tumore alla prostata.

Il test del PSA ha dimostrato di avere molti limiti nell’identificare correttamente uomini a rischio di tumore alla prostata da uomini completamente sani.
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Batteri legati allo sviluppo del tumore alla prostata aggressivo. E’ quanto hanno scoperto i ricercatori dell’Università dell’East Anglia analizzando le urine e il tessuto prostatico di oltre 600 uomini con e senza tumore alla prostata.

Per ora non è chiaro se i batteri siano la causa della comparsa e della progressione del tumore, ma se lo studio verrà confermato potrebbe aprirsi la possibilità di sviluppare dei test diagnostici per individuare gli uomini a rischio di malattia.

Dai risultati pubblicati sulla prestigiosa rivista European Urology Oncology emergono cinque specie batteriche maggiormente presenti negli uomini con tumore alla prostata avanzato: gli uomini che hanno una o più specie nelle urine avevano una probabilità di avere una progressione di malattia 2,6 volte maggiore rispetto ai pazienti che non avevano nessuna delle specie batteriche.

Attualmente non è possibile determinare con certezza se un tumore progredirà in una malattia aggressiva oppure crescerà lentamente. Avere a disposizione dei parametri che possano aiutare in questo potrebbe permettere di indirizzare le terapie in maniera più specifica.

Determinare inoltre se questi batteri possano essere la causa del tumore alla prostata, potrebbe permettere di utilizzare terapie antibiotiche mirate per ridurre il rischio di sviluppare la malattia. E’ ciò che sperano gli autori dello studio, anche se ulteriori ricerche saranno necessarie per chiarire questo aspetto.

Nonostante l’incidenza e la mortalità del tumore alla prostata stiano gradualmente diminuendo negli ultimi anni, questa patologia rappresenta ancora una delle principali cause di morte per tumori nel mondo.

L’insorgenza e lo sviluppo del cancro alla prostata sono influenzati dalla etnia, dalla storia familiare, dal microambiente e da altri fattori.

Negli ultimi decenni, sempre più studi hanno confermato che la microflora prostatica nel microambiente tumorale può svolgere un ruolo importante nell’insorgenza, nello sviluppo e nella prognosi del tumore alla prostata. I microrganismi e i loro metaboliti possono influenzare la presenza e la metastasi delle cellule tumorali o regolare la sorveglianza immunitaria antitumorale.

Il sangue nello sperma (emospermia o ematospermia) è sempre un campanello di allarme, ma nella maggior parte dei casi è dovuto ad una patologia benigna.

Più comunemente, il sangue nello sperma è una conseguenza di infezioni di basso grado o infiammazioni delle vescicole seminali o della prostata.

Lo sperma è una sostanza viscosa, formato da una parte cellulare (spermatozoi, prodotti dai testicoli) e una parte liquida prodotta da prostata, vescichette seminali, vie spermatiche e ghiandole di Cowper.

Il sangue nello sperma può quindi derivare da tutte queste zone dell’apparato urogenitale maschile.

La presenza di sangue nello sperma è facilmente riscontrabile dal colore rossastro dell’eiaculato e solitamente non è accompagnato da dolore.

Il sangue nello sperma non è normale, ma non è un evento così raro. E’ solitamente una situazione secondaria ad una patologia infettiva o infiammatoria; tuttavia, in alcuni pazienti, l’emospermia può essere il primo indicatore di altre malattie urologiche o disturbi sistemici.

Quali Sono le Cause del Sangue nello Sperma?

Il sangue nello sperma può essere dovuto ad una infezione, infiammazione, o un danneggiamento in qualsiasi parte del sistema riproduttivo maschile, dai testicoli, alle vescicole seminali, alla prostata.

Il sangue nello sperma può essere associato a:

Più raramente, la presenza di sangue nello sperma è conseguenza di:

  • tumore alla prostata;
  • Tumori delle vescichette seminali o dei testicoli;
  • ostruzione o traumi in ogni parte del sistema riproduttivo

La presenza di sangue dello sperma associata a dolore a livello uretrale può dipendere da malattia trasmissibili sessualmente, come Chlamydia, Herpes genitale, Gonorrea.

Il sangue nello sperma può verificarsi comunemente in seguito all’esecuzione di una biopsia prostatica, per poi sparire entro qualche giorno.

Quando devo preoccuparmi?

Anche se si tratta di un evento isolato, il sangue nello sperma deve essere considerato come un campanello d’allarme per un confronto con il proprio medico e poi eventualmente con uno specialista per risalire alle possibili cause.

E’ bene non indugiare nel consultare un medico soprattutto quando il sangue nello sperma si riscontra per diverse settimane e soprattutto se si avverte dolore alle vie urinarie.

Solitamente nei soggetti con età inferiore ai 40 anni si tratta principalmente di infezioni urogenitali che possono essere trattate adeguatamente se correttamente diagnosticate.

Il tumore alla prostata è la malattia oncologica più diffusa nel sesso maschile e ad oggi l’unico metodo per effettuare una diagnosi è la biopsia prostatica.

La biopsia della prostata è una procedura in cui tramite un ago vengono prelevati piccoli campioni di tessuto dalla ghiandola, chiamati frustoli. I campioni prelevati vengono esaminati al microscopio da un medico anatomo-patologo per verificare la presenza di cellule tumorali. Nel caso in cui siano presenti cellule tumorali il patologo dovrà anche verificare quanto siano trasformate rispetto ad una cellula sana, per determinare una probabile aggressività della malattia.

Attualmente l’indicazione a sottoporsi ad una biopsia prostatica dipende da diversi fattori, che devono essere messi in relazione dal medico urologo.

In base all’età, al valore del PSA, all’esito della visita urologica e dell’esplorazione rettale ed eventualmente della risonanza magnetica multiparametrica il medico potrà definire se il suo paziente necessiti di effettuare una biopsia per confermare o meno il sospetto di un tumore alla prostata.

Preparazione alla biopsia prostatica

La biopsia prostatica, come tutte le procedure chirurgiche, richiede un’attenta preparazione del paziente.

Gli esami ematochimici e nello specifico la valutazione della coagulazione devono essere eseguiti prima della biopsia, per valutare il rischio di sanguinamento durante e dopo la procedura. Nel caso di pazienti che assumono una terapia antiaggregante (come la Cardioaspirina) o una terapia anticoagulante, questa andrebbe sospesa diversi giorni prima dalla biopsia e ripristinata a distanza di almeno 12 ore dal termine della procedura.

Nel caso di pazienti con patologie sistemiche ed elevato rischio trombotico, si richiede una consulenza specialistica che identifica il trattamento più appropriato.

Esiste inoltre il rischio di infezioni, che viene affrontato assumendo una terapia antibiotica solitamente a partire dalle 24 ore precedente alla biopsia fino a qualche giorno dopo.

Come viene eseguita la biopsia?

La biopsia prostatica viene eseguita in regime ambulatoriale e più spesso di day-hospital, per monitorare il paziente nel caso in cui dovessero presentarsi complicanze precoci.

Il paziente viene posizionato su un fianco con gambe piegate oppure supino a gambe divaricate.

Il medico procede con l’esplorazione digito-rettale e introduce una sonda ecografica trans-rettale; con l’ecografia si individuano le aree sospette in cui andare a prelevare i campioni di tessuto con l’ago.

Recentemente grazie alla tecnologia della risonanza magnetica è stata introdotta la biopsia a fusione di immagini (o biopsia fusion, o biopsia mirata) che permette di fondere insieme i risultati di risonanza ed ecografia permettendo di andare a prelevare i campioni nelle aree altamente sospette, riducendo il rischio di falsi negativi.

Solitamente vengono prelevati 12 campioni bioptici ed inviati immediatamente dopo ai laboratori di anatomia patologica per effettuare l’analisi del tessuto.

La biopsia prostatica fa male?

Il prelievo dei campioni di tessuto richiede circa 20 minuti e viene eseguito in anestesia locale per renderla indolore.

Anche con l’anestesia è possibile avvertire un leggero dolore sia durante la procedura sia in seguito, che può essere controllato con una terapia analgesica, come il paracetamolo.

Subito dopo la procedura è possibile accusare sintomi come malessere generalizzato, astemia, nausea, tachicardia. Nei giorni seguenti è possibile che salga la febbre, si continui ad avvertire dolore o che si osservino sangue nelle urine, nello sperma o nelle feci.

Questi ultimi sono sintomi normali in seguito alla procedura, ma è opportuno contattare il proprio medico se questi dovessero protrarsi nel tempo.

Possibili effetti collaterali

In circa il 10% dei casi è possibile che in seguito alla biopsia prostatica si manifestino delle complicanze anche gravi.

Tra queste:

  • Emorragia
  • Infezione
  • Ritenzione urinaria
  • Problemi di erezione (transienti)

In questi casi sarà necessario un ricovero presso il reparto specifico in base al problema.

fonti: AIRC