Metodi, esami e test che vengono eseguiti per controllare la salute della prostata

Il tumore alla prostata di basso grado è tecnicamente un tumore, ma negli anni ci si è resi conto che questa definizione potrebbe essere un po’ fuorviante.

Un tumore alla prostata viene diagnosticato tramite esame bioptico, durante il quale il medico patologo può valutare anche il grado di avanzamento della malattia utilizzando la scala di Gleason che definisce come tumore alla prostata un punteggio che va da 6 (iniziale trasformazione) a 10 (gravità avanzata).

I tumori che hanno un Gleason Score di 6 sono le forme meno aggressive, con una progressione spesso molta lenta, che generalmente vengono definiti tumori di basso grado o a basso rischio.

Dobbiamo smettere di chiamarlo “tumore”?

Dato che queste forme di tumore alla prostata possono restare completamente indolenti per molti anni se non per l’intera vita del paziente, urologi e oncologi si stanno chiedendo se non sia il caso di iniziare a distinguerli nettamente dai tumori alla prostata che invece richiedono terapie e trattamenti, iniziando dal nome.

Un recente articolo pubblicato sulla rivista Journal of Clinical Oncology ha riportato alla ribalta questo tema. In questo articolo, il professor Scott Eggener dell’Università di Chicago ha sottolineato che i tumori con Gleason 6 siano la forma più debole di tumore alla prostata, aggiungendo che la maggior parte di questi sia letteralmente incapace di causare sintomi o diffondersi ad altre parti del corpo.

Il problema più grosso della definizione di tumore di basso grado sta proprio nel fatto che la parola “tumore” e “cancro” provocano necessariamente un grande stato di ansia e stress, sia nel paziente sia nei suoi familiari. Il rischio che si corre in questi casi è che il paziente stesso richieda insistentemente un trattamento radicale, anche quando ci siano i presupposti per poterlo evitare.

Il paziente si sente successivamente più sicuro per essersi liberato per sempre dalla malattia, entrando però in uno stato di ulteriore ansia e stress dovuti agli effetti collaterali dei trattamenti.

Dai dati disponibili sembrerebbe infatti che pochissimi di quei pazienti a cui è stato diagnosticato un tumore alla prostata con Gleason 6 progrediscono verso una forma più aggressiva di malattia nei successivi 5-10 anni.

La raccomandazione generale sarebbe di cercare di identificare correttamente questi pazienti per proporgli un protocollo di sorveglianza attiva, che include generalmente una serie di test del PSA regolarmente programmati, una risonanza magnetica ogni anno ed eventualmente una biopsia ogni due o tre anni.

La situazione verrebbe di volta in volta ridiscussa sulla base dei nuovi risultati, ma finché la malattia rimane stabile è possibile continuare a monitorarla.

C’è ovviamente chi è contrario a questa idea di cambiare il nome a questa malattia. Non chiamarla più “tumore” potrebbe dare un falso senso di sicurezza al paziente, facendogli sottovalutare la situazione, fino a saltare le visite di controllo.

Il dibattito è quindi aperto ed è argomento di discussione di diverse pubblicazioni e presentazioni ai principali congressi di urologia a livello mondiale.

Il tumore alla prostata è la malattia oncologica più diffusa nel sesso maschile e colpisce un uomo su sette. E’ così comune che difficilmente tra i nostri parenti o conoscenti non ce ne sia almeno uno che stia affrontando questa malattia.

Ma molto spesso non lo sappiamo. Il tumore alla prostata è ancora molto spesso un tabù. Un problema che può andare ad interessare la sfera sessuale ed è per questo che non se ne parla.

Ammettere di avere un problema alla prostata viene visto come ammettere di aver perso parte della propria virilità.

In realtà, se gli uomini sapessero che è proprio il trascurare questi problemi a dare problemi di erezione e fertilità correrebbero dall’urologo ben prima di avere dei sintomi.

La parola d’ordine è quindi: prevenzione!

Ed è proprio questo su cui si basa la Fondazione Movember, che ogni anno nel mese di novembre promuove una campagna internazionale di sensibilizzazione sulla salute dell’uomo. 

Il nome Movember deriva da “Moustache”, baffi in francese, e “November“, il mese in cui viene lanciata la campagna. Durante questo periodo gli uomini che aderiscono (i Mo bro) si fanno crescere i baffi invitando altre persone a donare fondi per la ricerca, prevenzione e diffusione della consapevolezza sul tumore alla prostata, tumore al testicolo e sulla salute mentale legata a queste patologie.

La storia di Movember inizia nel 2003, quando due amici, Travis Garone e Luke Slattery, mentre bevono una birra al pub parlano delle mode che erano sparite. Una di queste erano i baffi.

A quel punto i due amici hanno deciso di convincere i loro amici a farsi crescere i baffi e per motivarli hanno preso ispirazione dalla madre di un’amica che stava raccogliendo fondi per il cancro al seno.

Hanno deciso di organizzare una campagna sulla salute degli uomini e sul tumore alla prostata fissando alcune regole che che sono ancora in vigore oggi. Una di queste è che avrebbero donato 10 dollari per ogni uomo che si sarebbe fatto crescere i baffi.

Nel 2003 i primi 30 ragazzi, chiamati Mo Bros, hanno accettato la sfida, fino a coinvolgere oltre 6 milioni di Mo Bros e Mo Sister in tutto il mondo.

Il successo di Movember può essere in gran parte attribuito alla forza della comunità globale. Indipendentemente dalla città in cui viviamo, siamo parte di qualcosa di più grande, uniti dall’impegno per aiutare a cambiare il volto della salute degli uomini.

Puoi contribuire direttamente anche tu a questa iniziativa iscrivendoti a questo link, facendoti crescere i baffi e diffondendo l’importanza della prevenzione.

La Commissione Europea presenta una nuova proposta per sostenere gli Stati membri nell’aumentare l’adozione di programmi di screening per i tumori.

L’obiettivo è quello di riuscire ad aumentare i tipi di tumori che si possono individuare in una fase precoce, migliorando le procedure già esistenti e aumentando il numero di campagne di screening organizzati.

Questo nuovo approccio dell’Europa, basato sugli ultimi sviluppi e evidenze scientifiche disponibili, sosterrà gli Stati membri garantendo che entro il 2025 il 90% della popolazione dell’UE che rientri nelle categorie da sottoporre a screening per il tumore al seno, alla cervice uterina e al colon-retto riceva effettivamente questi esami.

Le nuove raccomandazioni ampliano la popolazione da sottoporre a screening organizzato anche per il tumore della prostata, del polmone, in determinate circostanze, dello stomaco.

Negli ultimi due anni, il COVID ha messo a dura prova la prevenzione, gli screening e la diagnosi dei tumori, accentuando la necessità di potenziare, semplificare e decentralizzare lo screening del cancro in tutta l’Europa.

Le nuove raccomandazioni per gli screening oncologici puntano a sostituire quelle attuali che ormai hanno già compiuto da tempo la “maggiore età”.

L’Europa mette sul piatto 38,5 milioni di euro impegnati nell’ambito del programma EU4Health e altri 60 milioni di euro nell’ambito di Horizon Europe.

Gli aggiornamenti principali

Per quanto riguarda i tumori per cui esiste già uno screening organizzato:

  • Tumore al seno: suggerisce di estendere il gruppo target per includere le donne di età compresa tra 45 e 74 anni (rispetto all’attuale fascia di età compresa tra 50 e 69 anni);
  • Tumore della cervice: raccomanda che le donne di età compresa tra 30 e 65 anni, ogni 5 anni o più, siano sottoposte a test per il papillomavirus umano (HPV) ogni 5 anni, tenendo conto dello stato di vaccinazione contro l’HPV;
  • Tumore colon-retto: chiede che venga eseguito come esame preliminare un test del sangue occulto nelle feci nelle persone di età compresa tra 50 e 74 anni per determinare la necessità di endoscopia/colonoscopia.


Basandosi sulle evidenze scientifiche e sui metodi più recenti, si raccomanda di estendere lo screening organizzato a tre ulteriori tumori:

  • Tumore alla prostata: gli uomini fino a 70 anni dovrebbero eseguire un test dell’antigene prostatico specifico (PSA) e una risonanza magnetica multiparametrica (MRI) come follow-up.
  • Tumore del polmone: per gli attuali fumatori ed ex fumatori di età compresa tra 50 e 75 anni.
  • Tumore dello stomaco: screening per Helicobacter pylori e sorveglianza delle lesioni precancerose dello stomaco in luoghi con un’elevata incidenza di cancro gastrico e tassi di mortalità.

Le raccomandazioni prestano particolare attenzione alla parità di accesso allo screening, alle esigenze di particolari gruppi socioeconomici, alle persone con disabilità e alle persone che vivono in aree rurali o remote per rendere lo screening del cancro una realtà in tutta l’Europa.

Sarà anche importante garantire procedure diagnostiche, trattamenti, supporto psicologico e assistenza post-vendita adeguati e tempestivi. La raccomandazione introduce inoltre un monitoraggio sistematico regolare dei programmi di screening, comprese le disparità, attraverso il sistema europeo di informazione sul cancro e il registro delle disuguaglianze nel cancro.

fonte: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_22_5562

Parlare di “screening” per il tumore alla prostata” non è completamente corretto in quanto non esiste ad oggi un vero e proprio percorso organizzato di visite ed esami per riuscire ad individuare precocemente l’insorgenza della malattia.

Il test di laboratorio che viene considerato il pilastro della prevenzione del tumore alla prostata, ovvero il test del PSA, è stato messo in forte discussione negli ultimi anno, dividendo medici e specialisti tra chi lo considera ancora indispensabile e chi è convinto che porti più danni che benefici, tra cui una grande confusione negli uomini.

La domanda che, infatti, divide da anni gli esperti di salute maschile è: tutti gli uomini, anche senza sintomi o storia familiare di tumore alla prostata, dovrebbero sottoporsi ad un test del PSA?

Chi sostiene l’importanza dei test del PSA di routine lo ritiene il miglior strumento a disposizione dei medici per individuare un tumore alla prostata precocemente, quando è più curabile.

Dall’altro lato, invece, ci soni medici che lo ritengono un esame che spinge molti uomini con una diagnosi di tumore non aggressivo a scegliere trattamenti radicali che possono causare impotenza e incontinenza, nonostante sia ampiamente dimostrato che circa l’80% dei tumori a basso rischio non saranno mai pericolosi per la vita. In questi casi la sorveglianza attiva potrebbe rappresentare una valida alternativa all’intervento.

Il National Comprehensive Cancer Network (NCCN), un’organizzazione senza scopo di lucro composta da 32 centri oncologici negli Stati Uniti, dopo un’attenta revisione della letteratura medica, ad oggi raccomanda che la maggior parte degli uomini con tumore alla prostata a basso rischio sia gestita attraverso la sorveglianza attiva come prima opzione di trattamento, preferendola alla chirurgia e alla radioterapia.

Le linee guida aggiornate da NCCN hanno anche ribadito la posizione contro i test di routine del PSA sulla popolazione generale a causa dei suoi limiti ben documentati.

Alcuni oncologi affermano addirittura che il dibattito sul PSA abbia messo in ombra il vero problema: ogni caso richiede un approccio personalizzato e incentrato sul singolo paziente.

Gli uomini dovrebbero prima di tutto aiutare i propri medici a capire se e quando sottoporsi al test del PSA, in base alla loro composizione genetica e biologica, all’età, alla storia familiare, alla salute generale, allo stile di vita, all’origine etnica e ad altri fattori. Qualsiasi percorso di cura del cancro dovrebbe essere affrontato in un modo simile, incentrato sul paziente.

Test PSA: pro e contro

Il test del PSA è stato introdotto nel 1994 per rilevare la possibile presenza di tumore alla prostata. Un livello di PSA inferiore a 4 nanogrammi per millilitro di sangue veniva storicamente considerato normale; quando raggiungeva un valore di 6 i medici avrebbero suggerito una biopsia per verificare la presenza di un tumore.

Non c’è dubbio che il test del PSA abbia aiutato a identificare molti casi di cancro che altrimenti non sarebbero stati trovati nelle fasi iniziali, ma anche quando il test rivela un tumore, non indica se si tratta di una forma aggressiva che necessita un trattamento immediato o se è un tumore a crescita lenta e a basso rischio poco pericoloso per la vita del paziente.

In effetti, studi autoptici hanno evidenziato che oltre il 30% degli uomini sopra i 70 anni non sa di avere un tumore alla prostata e muore per un’altra causa.

Tutti questi dubbi sul test del PSA hanno portato a un ampio dibattito su chi dovrebbe farlo, a quale età e in che modo medici e pazienti dovrebbero comportarsi in presenza di un livello elevato.

Ed è per questo che, ad oggi, manca ancora un percorso di screening organizzato per il tumore alla prostata.

Il test del PSA ha dimostrato di avere molti limiti nell’identificare correttamente uomini a rischio di tumore alla prostata da uomini completamente sani.
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Batteri legati allo sviluppo del tumore alla prostata aggressivo. E’ quanto hanno scoperto i ricercatori dell’Università dell’East Anglia analizzando le urine e il tessuto prostatico di oltre 600 uomini con e senza tumore alla prostata.

Per ora non è chiaro se i batteri siano la causa della comparsa e della progressione del tumore, ma se lo studio verrà confermato potrebbe aprirsi la possibilità di sviluppare dei test diagnostici per individuare gli uomini a rischio di malattia.

Dai risultati pubblicati sulla prestigiosa rivista European Urology Oncology emergono cinque specie batteriche maggiormente presenti negli uomini con tumore alla prostata avanzato: gli uomini che hanno una o più specie nelle urine avevano una probabilità di avere una progressione di malattia 2,6 volte maggiore rispetto ai pazienti che non avevano nessuna delle specie batteriche.

Attualmente non è possibile determinare con certezza se un tumore progredirà in una malattia aggressiva oppure crescerà lentamente. Avere a disposizione dei parametri che possano aiutare in questo potrebbe permettere di indirizzare le terapie in maniera più specifica.

Determinare inoltre se questi batteri possano essere la causa del tumore alla prostata, potrebbe permettere di utilizzare terapie antibiotiche mirate per ridurre il rischio di sviluppare la malattia. E’ ciò che sperano gli autori dello studio, anche se ulteriori ricerche saranno necessarie per chiarire questo aspetto.

Nonostante l’incidenza e la mortalità del tumore alla prostata stiano gradualmente diminuendo negli ultimi anni, questa patologia rappresenta ancora una delle principali cause di morte per tumori nel mondo.

L’insorgenza e lo sviluppo del cancro alla prostata sono influenzati dalla etnia, dalla storia familiare, dal microambiente e da altri fattori.

Negli ultimi decenni, sempre più studi hanno confermato che la microflora prostatica nel microambiente tumorale può svolgere un ruolo importante nell’insorgenza, nello sviluppo e nella prognosi del tumore alla prostata. I microrganismi e i loro metaboliti possono influenzare la presenza e la metastasi delle cellule tumorali o regolare la sorveglianza immunitaria antitumorale.

Il sangue nello sperma (emospermia o ematospermia) è sempre un campanello di allarme, ma nella maggior parte dei casi è dovuto ad una patologia benigna.

Più comunemente, il sangue nello sperma è una conseguenza di infezioni di basso grado o infiammazioni delle vescicole seminali o della prostata.

Lo sperma è una sostanza viscosa, formato da una parte cellulare (spermatozoi, prodotti dai testicoli) e una parte liquida prodotta da prostata, vescichette seminali, vie spermatiche e ghiandole di Cowper.

Il sangue nello sperma può quindi derivare da tutte queste zone dell’apparato urogenitale maschile.

La presenza di sangue nello sperma è facilmente riscontrabile dal colore rossastro dell’eiaculato e solitamente non è accompagnato da dolore.

Il sangue nello sperma non è normale, ma non è un evento così raro. E’ solitamente una situazione secondaria ad una patologia infettiva o infiammatoria; tuttavia, in alcuni pazienti, l’emospermia può essere il primo indicatore di altre malattie urologiche o disturbi sistemici.

Quali Sono le Cause del Sangue nello Sperma?

Il sangue nello sperma può essere dovuto ad una infezione, infiammazione, o un danneggiamento in qualsiasi parte del sistema riproduttivo maschile, dai testicoli, alle vescicole seminali, alla prostata.

Il sangue nello sperma può essere associato a:

Più raramente, la presenza di sangue nello sperma è conseguenza di:

  • tumore alla prostata;
  • Tumori delle vescichette seminali o dei testicoli;
  • ostruzione o traumi in ogni parte del sistema riproduttivo

La presenza di sangue dello sperma associata a dolore a livello uretrale può dipendere da malattia trasmissibili sessualmente, come Chlamydia, Herpes genitale, Gonorrea.

Il sangue nello sperma può verificarsi comunemente in seguito all’esecuzione di una biopsia prostatica, per poi sparire entro qualche giorno.

Quando devo preoccuparmi?

Anche se si tratta di un evento isolato, il sangue nello sperma deve essere considerato come un campanello d’allarme per un confronto con il proprio medico e poi eventualmente con uno specialista per risalire alle possibili cause.

E’ bene non indugiare nel consultare un medico soprattutto quando il sangue nello sperma si riscontra per diverse settimane e soprattutto se si avverte dolore alle vie urinarie.

Solitamente nei soggetti con età inferiore ai 40 anni si tratta principalmente di infezioni urogenitali che possono essere trattate adeguatamente se correttamente diagnosticate.

Il tumore alla prostata è la malattia oncologica più diffusa nel sesso maschile e ad oggi l’unico metodo per effettuare una diagnosi è la biopsia prostatica.

La biopsia della prostata è una procedura in cui tramite un ago vengono prelevati piccoli campioni di tessuto dalla ghiandola, chiamati frustoli. I campioni prelevati vengono esaminati al microscopio da un medico anatomo-patologo per verificare la presenza di cellule tumorali. Nel caso in cui siano presenti cellule tumorali il patologo dovrà anche verificare quanto siano trasformate rispetto ad una cellula sana, per determinare una probabile aggressività della malattia.

Attualmente l’indicazione a sottoporsi ad una biopsia prostatica dipende da diversi fattori, che devono essere messi in relazione dal medico urologo.

In base all’età, al valore del PSA, all’esito della visita urologica e dell’esplorazione rettale ed eventualmente della risonanza magnetica multiparametrica il medico potrà definire se il suo paziente necessiti di effettuare una biopsia per confermare o meno il sospetto di un tumore alla prostata.

Preparazione alla biopsia prostatica

La biopsia prostatica, come tutte le procedure chirurgiche, richiede un’attenta preparazione del paziente.

Gli esami ematochimici e nello specifico la valutazione della coagulazione devono essere eseguiti prima della biopsia, per valutare il rischio di sanguinamento durante e dopo la procedura. Nel caso di pazienti che assumono una terapia antiaggregante (come la Cardioaspirina) o una terapia anticoagulante, questa andrebbe sospesa diversi giorni prima dalla biopsia e ripristinata a distanza di almeno 12 ore dal termine della procedura.

Nel caso di pazienti con patologie sistemiche ed elevato rischio trombotico, si richiede una consulenza specialistica che identifica il trattamento più appropriato.

Esiste inoltre il rischio di infezioni, che viene affrontato assumendo una terapia antibiotica solitamente a partire dalle 24 ore precedente alla biopsia fino a qualche giorno dopo.

Come viene eseguita la biopsia?

La biopsia prostatica viene eseguita in regime ambulatoriale e più spesso di day-hospital, per monitorare il paziente nel caso in cui dovessero presentarsi complicanze precoci.

Il paziente viene posizionato su un fianco con gambe piegate oppure supino a gambe divaricate.

Il medico procede con l’esplorazione digito-rettale e introduce una sonda ecografica trans-rettale; con l’ecografia si individuano le aree sospette in cui andare a prelevare i campioni di tessuto con l’ago.

Recentemente grazie alla tecnologia della risonanza magnetica è stata introdotta la biopsia a fusione di immagini (o biopsia fusion, o biopsia mirata) che permette di fondere insieme i risultati di risonanza ed ecografia permettendo di andare a prelevare i campioni nelle aree altamente sospette, riducendo il rischio di falsi negativi.

Solitamente vengono prelevati 12 campioni bioptici ed inviati immediatamente dopo ai laboratori di anatomia patologica per effettuare l’analisi del tessuto.

La biopsia prostatica fa male?

Il prelievo dei campioni di tessuto richiede circa 20 minuti e viene eseguito in anestesia locale per renderla indolore.

Anche con l’anestesia è possibile avvertire un leggero dolore sia durante la procedura sia in seguito, che può essere controllato con una terapia analgesica, come il paracetamolo.

Subito dopo la procedura è possibile accusare sintomi come malessere generalizzato, astemia, nausea, tachicardia. Nei giorni seguenti è possibile che salga la febbre, si continui ad avvertire dolore o che si osservino sangue nelle urine, nello sperma o nelle feci.

Questi ultimi sono sintomi normali in seguito alla procedura, ma è opportuno contattare il proprio medico se questi dovessero protrarsi nel tempo.

Possibili effetti collaterali

In circa il 10% dei casi è possibile che in seguito alla biopsia prostatica si manifestino delle complicanze anche gravi.

Tra queste:

  • Emorragia
  • Infezione
  • Ritenzione urinaria
  • Problemi di erezione (transienti)

In questi casi sarà necessario un ricovero presso il reparto specifico in base al problema.

fonti: AIRC

Quando il risultato del test del PSA è un valore alto potrebbe essere un campanello di allarme. Potrebbe essere il segno di un tumore alla prostata, ma anche di un ingrossamento, o di una prostatite, o può essere la conseguenza dell’uso della bicicletta, oppure abbiamo fatto sesso la sera prima.

L’antigene prostatico specifico, o PSA, è una proteina fisiologicamente prodotta dalla ghiandola prostatica. Quando la prostata viene sollecitata, da uno stimolo, da una pressione o da una situazione patologica il PSA fuoriesce in maggiori quantità e finisce nel sangue.

Fino a qualche anno fa una quantità di PSA nel sangue oltre i 4 ng/mL veniva considerato alto e nella maggior pare dei casi avrebbe portato l’uomo a sottoporsi ad una biopsia della prostata.

Oggi prima di prescrivere l’esecuzione di una biopsia insieme al test del PSA viene considerata l’età del paziente, la salute generale, la storia familiare, l’aspettativa di vita e in molti casi, quando il dubbio non è sciolto, può essere richiesta una risonanza magnetica multiparametrica.

Un singolo test del PSA ormai non è più considerato come un indicatore della probabilità di avere un tumore alla prostata, ma viene solitamente misurato più volte per valutare se ci sia un aumento costante nel tempo.

Questo perchè è stato visto che, di base, ogni uomo può avere un diverso valore di PSA “normale” e quindi non è possibile stabilire un valore “alto” in maniera universale.

Infatti, a prescindere dall’età la probabilità di avere una tumore alla prostata è:

  • 10%, con un PSA sotto 4 ng/ml
  • 25%, con un PSA tra 4 e 10 ng/ml
  • 50%, con un PSA sopra 10 ng/ml

In conclusione, un valore di PSA alto non deve necessariamente allarmare, ma non deve essere trascurato. Deve sempre essere contestualizzato e interpretato dal medico o dall’urologo unitamente ad altri parametri come età, la presenza di altri casi di tumore alla prostata in famiglia, esame oggettivo.

Cosa fare con un PSA alto anche dopo una biopsia negativa?

Come scritto in precedenza, un valore elevato di PSA può essere la conseguenza di molti eventi, diversi da un tumore. La biopsia viene eseguita per confermare o smentire il sospetto di un tumore alla prostata, ma in alcuni casi la biopsia può “mancare” le cellule tumorali.

In presenza di un valore di PSA costantemente alto (o in continua crescita) e una biopsia prostatica negativa bisogna cercare di capire quali possano essere le cause, e se il dubbio permane sottoporsi ad una biopsia mirata.

La biopsia prostatica è l’unico modo per diagnosticare un tumore alla prostata. Tuttavia in alcuni casi può non essere in grado di individuare la malattia.

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Molte strutture ospedaliere offrono strumenti diagnostici all’avanguardia per il tumore alla prostata, una di queste è la biopsia prostatica guidata a fusione di immagini, o biopsia fusion, che combina le immagini ottenute tramite risonanza magnetica (MRI) con gli ultrasuoni.

Si tratta di un metodo altamente efficace che permette di effettuare le biopsie alla prostata in maniera più precisa.

I pazienti vengono prima sottoposti a una risonanza magnetica della prostata, per identificare eventuali aree sospette. Durante la biopsia, le immagini della risonanza magnetica vengono fuse in tempo reale con le immagini della biopsia prostatica ecoguidata. Questa combinazione simultanea di immagini guida il medico con maggiore precisione durante la biopsia per visualizzare e valutare le aree dubbie.

Le immagini combinate consentono ai medici di differenziare meglio le cellule sospette dal tessuto prostatico sano e di ottenere una visione più chiara delle zone in cui vengono fatti i prelievi.

Questa maggiore precisione rispetto alla biopsia prostatica tradizionale permette di raccogliere un minor numero di prelievi biotici, riducendo il rischio di complicanze (ematuria, infezioni delle vie urinarie, disfunzione erettile) e di aumentare la sensibilità nella diagnosi di tumori aggressivi.

Chi può sottoporsi alla biopsia prostatica fusion? 

I pazienti sottoposti a risonanza magnetica multiparametrica della prostata che hanno avuto un riscontro di zone sospette per processi tumorali sono candidati alla biopsia prostatica fusion.

Il paziente deve segnalare eventuali patologie a livello cardiaco, eventuali disturbi della coagulazione noti o alterazione dei tempi di sanguinamento.

La sera prima o la mattina della procedura è necessario eseguire un clistere di pulizia. Per prevenire episodi di svenimento durante la biopsia, può essere somministrata una leggera sedazione che determina un rallentamento dei riflessi anche nelle ore successive alla procedura.

Lo screening per il tumore alla prostata tramite il test del PSA ha contribuito negli a ridurre la mortalità di questa malattia. Tuttavia l’elevato rischio di sovradiagnosi e trattamenti eccessivi hanno sollevato forti dubbi sull’utilizzo di questo test sulla popolazione generale.

Da una recente revisione della letteratura scientifica condotta da SAPEA, un consorzio di consulenti scientifici indipendenti che supporta le decisioni della Commissione Europea, emerge che l’errore diagnostico del test del PSA potrebbe essere ridotto sottoponendo gli uomini anche ad una risonanza magnetica multiparametrica, e combinando i risultati con la visita eseguita dall’urologo, la storia familiare, l’esame digito-rettale e volume della prostata.

Nel 2015 le linee guida europee sconsigliavano uno screening sistematico del PSA sulla popolazione generale.

Le raccomandazioni contro i test sistematici del PSA sono ora in fase di revisione alla luce di nuovi dati, compreso un aumento nel numero di tumori alla prostata metastatici diagnosticati negli uomini di età superiore ai 75 anni.

Tuttavia, ci sono molte domande senza risposta che circondano l’utilità e il rapporto costo-efficacia dello screening del tumore alla prostata, in particolare quando si bilanciano i rischi di sovra e sotto diagnosi.

Ci si sta interrogando su quali debbano essere i criteri per decidere chi debba eseguire il test del PSA come screening per il tumore alla prostata.

Lo studio europeo ERSPC aveva stabilito che per poter vedere dei benefici in termini di riduzione della mortalità il test del PSA doveva essere eseguito ripetutamente sulla popolazione, per aumentare la probabilità di individuare i soggetti malati. Da questo studio è infatti emerso che per vedere una riduzione della mortalità per tumore alla prostata del 20% è necessario eseguire visite ripetute agli uomini per 14 anni.

Ma se da un lato ci sono uomini che sono sopravvissuti grazie ad una diagnosi precoce, dall’altro ci sono molti più uomini che si sono sottoposti a test del PSA. biopsia prostatica, visite urologiche, in maniera ripetuta senza averne una reale necessità.

Chi dovrebbe essere sottoposto a screening per il tumore alla prostata?

Per equilibrare i benefici e i danni dello screening del tumore alla prostata deve necessariamente essere definito il sottogruppo di uomini che ne avrebbe maggior vantaggio.
Gli uomini più anziani sono a maggior rischio di tumore alla prostata, ma sono anche a maggior rischio di sovradiagnosi.

Basandosi su un’analisi economica e sui dati dell’ERSPC, utilizzare una soglia di PSA di 3,0 ng/ml misurato ogni due anni nella fascia di età tra 55 e 59 anni potrebbe comportare un calo del 13% della mortalità per tumore alla prostata, con una quantità limitata di sovradiagnosi.

Test aggiuntivi per ridurre la biopsia e le sovradiagnosi non necessarie

Una serie di ulteriori test post-screening può essere offerto a uomini con livelli di PSA moderatamente elevati, al fine di aiutare a ridurre il rischio di sovradiagnosi.
È importante sottolineare che i tumori di basso grado per lo più non si evidenziano con la risonanza magnetica. Mettendo insieme diversi studi emerge che la risonanza magnetica prostatica potrebbe ridurre di circa un terzo la necessità di biopsia negli uomini con un risultato anomalo del PSA.
Al contrario, se la risonanza magnetica ha rilevato un’area molto sospetta, è probabile che questo sia un tumore in circa il 96% di casi.

Le indicazioni dell’Europa

La sovradiagnosi e il trattamento eccessivo sono importanti danni nello screening del tumore alla prostata, a causa dell’elevata sensibilità dei test PSA, che rileva un gran numero di tumori di basso grado a crescita lenta.

Dall’analisi degli studi effettuati fino ad ora in molti stati Europei, un utilizzo del test del PSA su soggetti selezionati in associazione alla risonanza magnetica biparametrica in caso di positività al test del sangue sembra possa essere la scelta migliore.

Bisogna però definire un limite di età massimo a cui sottoporre gli uomini a screening (possibilmente intorno a 65-69) e imporre una risonanza magnetica di alta qualità o un altro accurato test aggiuntivo per gli uomini positivi al test del PSA, per permettere di ridurre la sovradiagnosi e miglioreranno il rapporto costi/benefici.

I test del PSA opportunistici e non organizzati vedono attualmente un uso insufficiente nei giovani uomini e una sovradiagnosi negli uomini più anziani, quindi con la sola conseguenza di causare quantità sostanziali di inutili trattamenti.

Ad oggi, la maggior parte della ricerca sullo screening della prostata si è concentrata sulla riduzione dei danni dovuti alla sovradiagnosi. Ma questi sforzi molto probabilmente si sono tradotti inavvertitamente in un leggero aumento del numero di tumori aggressivi che vengono ignorati.

Bisognerà concentrarsi anche su tecniche e metodiche che permettano una migliore stratificazione del rischio di progressione della malattia, ma soprattutto test pratici ed efficaci per supportare la sorveglianza attiva per garantire l’approccio terapeutico più adatto e personalizzato possibile ad ogni paziente.

Stiamo lavorando ad un test delle urine per migliorare la selezione degli uomini da sottoporre a biopsia prostatica e aiutare il medico nell’individuare la terapia più adatta.

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